Le prime sceneggiature del cinema italiano (risalenti al 1906-1907) sono per lo più delle succinte descrizioni dell’intreccio, eventualmente divise in “quadri”. Dal 1908-1909, però, con l’istituzione dei primi Uffici Soggetti all'interno delle case di produzione e con le prime assunzioni di soggettisti specializzati (provenienti dal giornalismo, dal teatro o dalla narrativa popolare), le sceneggiature iniziano ad evolvere in strutture formali più complesse.
Anche se in Italia, più che altrove, la produzione tende a investire sui letterati di fama (si veda Il cinema muto italiano e i letterati), in realtà il coinvolgimento di questi ultimi è spesso più formale che sostanziale: il più delle volte i produttori comprano dallo scrittore professionista la sua firma, una sua opera o uno spunto narrativo originale, per poi affidare il concreto lavoro di sceneggiatura a meno noti ma più affidabili “scenaristi” di professione: tra questi si possono ricordare poligrafi inventivi come Renzo Chiosso (molto attivo alla Film Artistica Gloria) e Giovanni Bertinetti, autori teatrali minori come Emiliano Bonetti, scrittori di narrativa popolare come Carlo Merlini ed Egisto Roggero, o ex-giornalisti come Arrigo Frusta, attivo per molti anni all’Ambrosio (sono suoi gli adattamenti dai drammi dannunziani realizzati dalla casa torinese, e autorizzati dal poeta Vate con la propria firma autografa apposta sulle pagine delle sceneggiature
Dopo il 1913 la definitiva affermazione del lungometraggio richiede una pianificazione sempre più precisa delle riprese. Risalgono a questo periodo i primi tentativi di formalizzare un modello di sceneggiatura per il cinema italiano. Tale modello presenta in apertura una breve descrizione del soggetto, l’elenco dei personaggi e dei relativi interpreti, la descrizione delle scene. Le scene sono numerate e si aprono con l’indicazione del luogo dell’azione e della dimensione del piano. Talvolta la scena è articolata in sezioni distinte (Titolo, Ambiente, Azione, Personaggi)
Nel corso delle riprese, si segnano le scene realizzate, annotando ai margini delle pagine il metraggio.
I testi delle didascalie sono spesso visivamente separati dalla descrizione delle scene. Le sceneggiature inoltre, con frequenza crescente dopo il 1912, presentano numerose annotazioni sulla messa in scena: la posizione e i movimenti della cinepresa, l’illuminazione, la profondità spaziale, la recitazione ecc. In alcune sceneggiature (come quelle di Frusta) sono inseriti anche disegni, così come riferimenti alle fonti letterarie e iconografiche del soggetto o di una scena (elementi che saranno poi gradualmente rigettati nel corso degli anni Venti).
Intorno alla metà degli anni Dieci la definizione degli standard può dirsi compiuta. La scrittura per il cinema diventa sempre più professionale, e iniziano a circolare anche manuali tecnici di sceneggiatura, come L’arte di fare un “soggetto” per cinematografo di Pasquale Marica (1920), o il più tardo Corso per formarsi autore cinematografico di Renzo Chiosso (1927). Da quel periodo non si registrano più delle novità rilevanti, se non una progressiva accentuazione delle indicazioni tecniche: i codici di scrittura si stabilizzano, restando sostanzialmente invariati sino alla fine degli anni Venti.
Le sceneggiature del cinema muto italiano sono oggi molto difficili da reperire e studiare: il nucleo più consistente di “scenari” originali dell’epoca è conservato presso l’Archivio Storico del Museo Nazionale del Cinema, dove si possono consultare, tra gli altri, i lavori per il cinema di Chiosso, Bonetti, Vittorio Emanuele Bravetta, Merlini, Lucio d’Ambra, e molti altri.