Fatta eccezione per il periodo relativo all'istituzione dell’Ufficio di revisione (1913) e quello che vedrà la prima importante riforma (1919-1920), la stampa periodica specializzata si occupa occasionalmente della censura, pubblicando e commentando i testi legislativi (come nel caso della pubblicazione della legge e regolamento sulla Vigilanza sulle pellicole cinematografiche, apparsa su “La Vita Cinematografica” del 15-22 agosto 1914), ospitando interventi orientati al confronto tra i sostenitori e chi manifesta invece scetticismo e dissenso rispetto alla sconsiderata insensatezza dei provvedimenti imposti dalle commissioni. Queste ricorrenti voci critiche affermano l'inutilità della censura, ponendo l'accento sulle sue finalità lucrative e sui danni arrecati allo sviluppo della neonata industria, già provata dalle limitazioni imposte dal primo conflitto mondiale, nonché dalla forte concorrenza dei mercati internazionali.
In altri casi, il tema della Censura si intreccia spesso con il più ampio dibattito relativo alla tutela della moralità pubblica, oppure è evocato in riferimento a specifici episodi (si veda il caso di Maciste alpino, sequestrato a Torino dopo più d'una decina di giorni di programmazione: Angelo Menini, Oh censura!, in “Film”, 28 febbraio 1917).
Una selezione di contributi apparsi nel periodo 1913-1921 su alcune delle principali riviste di settore conservate presso il Museo Nazionale del Cinema, restituisce un quadro forse non esaustivo, ma comunque ampiamente rappresentativo del fermento e del contesto in cui la censura cinematografica si formò e costituì come tale.
Il 30 aprile 1913, “La Vita Cinematografica” commenta l’istituzione della Censura come una “vittoria” dell'Unione Italiana Cinematografisti, la quale, presieduta dal noto produttore Ernesto Maria Pasquali, si era finalmente vista accogliere la proposta di unificare la revisione censoria a Roma. Dall'articolo si apprende anche che le pellicole in circolazione al momento dell'istituzione della Censura, avrebbero potuto continuare a esser proiettate senza revisione, purché non soggette a precedenti divieti e, ad ogni modo, accompagnate da certificato richiesto all'Ufficio dagli interessati entro e non oltre 15 giorni dall'apertura dello stesso. Proprio quest’ultima disposizione creerà non pochi problemi, tanto da spingere l'Avv. Giuseppe Barattolo, appena un anno più tardi, a scrivere un'accorata lettera indirizzata al Ministro dell'Interno – e pubblicata da “Il Maggese Cinematografico” il 15 ottobre 1914 –, in cui si chiede una deroga affinché i distributori possano sopperire alla mancanza di nuove pellicole (conseguente la chiusura dei mercati esteri a causa della crisi bellica europea) da proporre al pubblico, sfruttando quelle distribuite nel periodo precedente l'istituzione dell'Ufficio.
La manifesta miopia e insulsa rigidità di alcuni provvedimenti intrapresi dal nuovo istituto, dividono fin dall'inizio. È il caso del divieto di proiezione dei film di genere poliziesco e d'avventura imposto a partire dal 1915. Interessanti a questo proposito due articoli pubblicati su “La Vita Cinematografica” del 22 gennaio 1915: nel primo viene ripreso un articolo del professor Carlo Eula apparso sulla “Gazzetta del Popolo”, la cui posizione era apertamente schierata nel sostenere la causa della censura; nel secondo, firmato E. F. Peyron, si legge invece una provocatoria replica alle dichiarazioni di Eula.
Quel che viene rilevato nei contributi selezionati è, da un lato, l’assenza, nel disporre certi provvedimenti, di attenzione a quella crisi dei mercati internazionali che va delineandosi con l'approssimarsi del primo conflitto mondiale e che comporta la limitazione o la chiusura di importanti canali distributivi; dall'altro, la scarsa capacità d'incidere sulle decisioni del Ministero da parte di gruppi corporativi che si sarebbero voluti preposti alla tutela delle categorie interessate (principalmente produttori, ma anche distributori ed esercenti), quale la già ricordata Unione Italiana Cinematografisti.
Leggendo questi interventi, si ha l'impressione di assistere a un apparente “strabismo”: da un lato, infatti, si reputa spesso opportuna la decisione di vietare film considerati avvilenti per la morale e diseducativi; dall'altro lato, e contemporaneamente, si esprime un fermo scetticismo nell'eccesso di rigidità dell'applicazione dei provvedimenti medesimi.