Dopo il 1910, con l’ormai inarrestabile trasformazione del cinema in un medium popolare, il nuovo spettacolo diventa bersaglio di una vasta campagna di aggressione. Le critiche tradiscono un evidente disagio (se non una paura) nei confronti dei cambiamenti: il cinema diventa il capro espiatorio di un’insicurezza più profonda, generata dalla difficoltà di comprendere le trasformazioni della modernità. Cronisti, moralisti, funzionari ministeriali, politici conservatori, magistrati, avvocati, psicologi, neurologi e antropologi criminali si impegnano a individuare le ragioni della pericolosità del cinematografo. Queste convinzioni alimentano una sterminata pubblicistica che rilancia i suoi allarmi per tutti gli anni Dieci e anche oltre. La sola misura da adottare, si legge quasi sempre, non può che essere la drastica proibizione “a monte” dei contenuti visibili immorali.
Lo Stato, più volte chiamato in causa dai moralizzatori, interviene a disciplinare il settore con gradualità. L’autentica svolta normativa si ha il 20 febbraio del 1913, quando Giolitti diffonde ai Prefetti una circolare che di fatto introduce la Censura cinematografica di Stato.
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