I primi passi della Censura cinematografica in Italia: il quadro legislativo

Con la rapida affermazione del cinema, forma d'intrattenimento capace di attrarre un pubblico eterogeneo per età, genere e classe sociale, si fa sempre più frequente fra i sostenitori della causa moralizzatrice, la preoccupazione che possa veicolare messaggi e comportamenti diseducativi, quando non addirittura criminali, soprattutto fra le fasce di spettatori più deboli, ovvero i bambini, le donne, i neuropatici e il pubblico meno colto (si confronti quanto scriveva Giulio Rudini su “Il Maggese Cinematografico” del 10 maggio 1913). Non sorprende quindi la frequenza con la quale viene invocata l’istituzione della Censura cinematografica sin dai primi anni del Novecento.

Già prima che venisse istituito (nel 1913) l'Ufficio Centrale di Revisione (ovvero la censura di Stato), preesistevano tuttavia norme che imponevano la sorveglianza statale degli spettacoli pubblici, la cui applicazione era affidata ai rappresentanti della Pubblica Sicurezza delle Prefetture locali: risale infatti al 1910 l'iniziativa dell'On. Vittorio Emanuele Orlando di introdurre – rifacendosi a una legge risalente al 1907 – il vincolo dell'autorizzazione prefettizia per le proiezioni in pubblico.

La richiesta di un Ufficio Centrale unico preposto all'esame censorio fu invocata dagli stessi produttori di film, per ridurre gli eventuali danni economici arrecati dalla contraddittorietà dei giudizi dipendenti dall'arbitrale “sensibilità” dei singoli prefetti, nonché con l'intento di stabilire ordine in un diffuso clima di confusione (si veda “La Vita Cinematografica” del 15 gennaio 1913).

A seguito della circolare fatta diramare ai prefetti il 20 febbraio 1913 dal Presidente del Consiglio Giolitti che vietava i film in cui fossero stati mostrati i rappresentanti della pubblica forza come figure odiose, simpatizzando per i rei, o che istigassero atteggiamenti sensuali e/o l'odio tra classi sociali, offendendo il decoro nazionale, l'8 maggio 1913 l'On. Luigi Facta presentava il disegno di legge (la n. 785, poi approvata il 25 giugno) che attribuiva allo Stato la vigilanza (e l'eventuale autorizzazione) di tutte le pellicole cinematografiche, sia nazionali che d'importazione, destinate alle proiezioni pubbliche, nonché una tassa di 10 centesimi per ogni metro di pellicola, dovuta a sostegno delle spese per il nuovo servizio (senza gravare così sul bilancio pubblico), assolto da una commissione unica e preposta al controllo.

Il 31 maggio 1914, con regio decreto firmato dal nuovo Presidente del Consiglio, On. Salandra, veniva approvato il regolamento per l'esecuzione della legge Facta, il quale fissava la fisionomia dell'ordinamento censorio nazionale, rappresentato da due commissioni (di primo e secondo grado), composte da funzionari della Direzione Generale di Pubblica Sicurezza e/o da commissari di Polizia.

Fra le disposizioni, l'articolo 2 prevedeva il divieto di rappresentazione pubblica di qualsiasi pellicola sprovvista di nulla osta. Quest’ultimo poteva essere concesso “puramente e semplicemente”, o con disposizioni rispetto la soppressione o modifica di testi, didascalie e/o intere parti del film, di cui gli interessati erano chiamati a prendere visione e provvedere alla relativa applicazione. Tuttavia l'articolo 8 consentiva anche la possibilità da parte degli stessi di impugnare gli esiti della revisione, sottoponendo il film a un secondo esame presso la commissione preposta (della quale non poteva far parte il funzionario che si era pronunciato e aveva sottoscritto l'esito della prima revisione).

Si noti ancora come il regolamento riservasse al Ministero o al solo Prefetto, la possibilità di chiedere il ritiro di determinate pellicole, se difformi rispetto alle disposizioni del revisore, o in “eccezionali circostanze di indole locale attinenti all'ordine pubblico”.

Con l'approvazione il 22 aprile 1920 di un nuovo regolamento si assiste alla prima importante riforma della censura cinematografica. Fra le principali novità, si segnalano l'obbligo di presentazione del copione; una casistica più minuziosa di ciò che è vietato mettere in scena; l'introduzione in commissione di revisione, oltre a due funzionari di Pubblica Sicurezza, anche di un magistrato, di una madre di famiglia, di un “educatore”, di una persona competente in materia artistica e letteraria e di un pubblicista (si vedano a proposito i due contributi apparsi sulle pagine de “La Rivista Cinematografica” rispettivamente il 10 aprile e il 10-25 dicembre 1920 ).