In buona parte dei contributi pubblicati sulle riviste di settore dell'epoca sono presenti toni più o meno palesemente ironici o sarcastici. Questa tendenza trova la sua più brillante espressione nelle dichiarazioni rilasciate a “La Vita Cinematografica” nel dicembre 1920 dal noto soggettista Riccardo Artuffo, il quale affida a un fantasioso racconto le sue personali considerazioni sull'insensatezza e futilità della censura e dei provvedimenti.
Si può evincere, per concludere, come l'idea e il parere diffusi – almeno stando a quanto espresso attraverso la stampa specializzata – fossero in sostanza quasi concordi nel ritenere l'istituzione della censura pressoché fallimentare, o comunque molto critici nei confronti dei provvedimenti intrapresi, rei – con la complicità di uno Stato miope e nel contempo “opportunista” – di attentare allo sviluppo di una (apparentemente) fiorente industria. Perfino una personalità autorevole come Silvio D'Amico, in un'interessante testimonianza resa all'“Idea Nazionale” e ripresa da “La Rivista Cinematografica” il 10 gennaio 1921, in qualità di ex-componente di una delle commissioni, confessa scetticismo e una certa sfiducia nella censura così com'era stata fino a quel momento intesa e applicata, rilevandone ancora una volta l'inefficacia e inutilità, ma notando anche acutamente “Si chiede un rinnovamento; si chiede un miracolo. Cose che noi poveri censori non possiamo dare. Le può dare soltanto un poeta. E il cinematografo aspetta il suo”.